Ripensare l’organizzazione con il RenDanHeYi

martedì 14 ottobre 2025

15 minuti

Ripensare l’organizzazione con il Rendanheyi

Intervista a Emanuele Quintarelli

Dialogo tra Emanuele Quintarelli e Joshua Volpara 

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Nel corso dei Zero DX Awards, Emanuele Quintarelli – studioso e consulente tra i massimi esperti del modello RenDanHeYi e delle platform organizations – ha dialogato con Joshua Volpara sul significato profondo dell’approccio di Haier e sulle sue implicazioni per il futuro del lavoro e dell’impresa.
Questa intervista esplora i fondamenti culturali e organizzativi del modello, la sua evoluzione dal RenDanHeYi 1.0 al 2.0 e le sfide legate alla sua adozione in contesti occidentali.

Partiamo da un aspetto biografico. In occasione degli Zero DXAwards, hai avuto un ruolo anche istituzionale: hai moderato il workshop e sei stato più volte citato da parte dell’Haier Model Institute. Come nasce questa relazione privilegiata con loro? Come sei arrivato a essere così conosciuto nel contesto dell’Haier Model Institute?

Ci sono arrivato perché negli ultimi anni ho collaborato con HMI su diversi fronti: dalla formazione a iniziative di comunicazione e, soprattutto, a progetti di implementazione e adozione del modello all’interno delle organizzazioni. In tutti i progetti che hanno richiesto un supporto consulenziale ho partecipato in modo significativo, maturando una comprensione piuttosto profonda dei meccanismi di applicazione di quelle idee in contesti differenti. Questa esposizione diretta mi ha permesso di sviluppare una prospettiva piuttosto unica.

Una prospettiva unica

Restiamo sul tema dell’applicazione dei loro modelli in altri contesti. Per comprendere meglio anche da un punto di vista italiano: perché Haier ha deciso di creare un istituto e di investire così tanto su questo modello? L’esempio che viene in mente è Toyota con il Lean Management, che negli anni ’80 e ’90 è diventato un riferimento globale. Qual è, secondo te, il movente di Haier? Perché investire in questa direzione, al di fuori della propria azienda?

Ovviamente non posso parlare a nome di Haier, ma da ciò che ho osservato ritengo che, in decenni di storia dell’organization design, abbiano effettivamente prodotto qualcosa di unico e molto coerente con i tempi che stiamo vivendo. C’è certamente un elemento di orgoglio istituzionale, ma anche una forma di reazione rispetto ai tradizionali centri di elaborazione del pensiero manageriale, storicamente collocati altrove.
Da circa vent’anni Haier sta cercando di raccontare al mondo ciò che fa e di costruire una comunità di attori – aziende, centri di ricerca, professori, esperti – in grado di comprendere, interpretare e trasferire le loro idee in contesti profondamente diversi da quello del manufacturing cinese e dal suo specifico ambiente politico e culturale.
Un obiettivo di questa portata non può essere raggiunto da Haier da sola. Tuttavia i risultati che riportano sembrano concreti: migliaia di aziende e le principali business school si stanno avvicinando al modello, studiandolo e cercando di trarne ispirazione.

Migliaia di aziende e le principali business school si stanno avvicinando al modello

Questo è interessante, e in effetti si collega a ciò che in Italia si conosce della storia di Zhang Ruimin attraverso libri come Corporate Rebels e Humanocracy. Lui ha esplorato e sperimentato modelli provenienti dall’Occidente e dal Giappone, e a un certo punto ha dovuto crearne uno proprio. È un po’ la stessa traiettoria: a un certo punto il loro approccio diventa la sorgente.

L’aspetto più interessante è proprio la capacità di Haier di coniugare filosofie diverse. Il modello RenDanHeYi integra elementi del pensiero di Peter Drucker – come il concetto di “crea il tuo cliente” e l’idea che ogni dipendente debba essere amministratore delegato di sé stesso – con una visione più ecosistemica e collettivista che bilancia l’individualismo, permettendo al sistema di auto-organizzarsi.
Questo approccio attenua l’individualismo tipico delle culture occidentali, riportandolo all’interno di una prospettiva sistemica, fortemente orientata al mercato e alla tecnologia. Zhang Ruimin parla spesso di Internet of Things e di dispositivi intelligenti come sensori capaci di generare dati utili ai processi decisionali.
Il modello riesce così a unire propensioni umane e progressi tecnologici, in una modalità infinitamente scalabile. Il self-management non è stato inventato da Haier, ma la sua declinazione in forme di self-organizations capaci di coinvolgere centinaia di migliaia di persone è qualcosa di unico.
E oggi il metodo, come si è visto anche nel tema di quest’anno – Zero Boundaries – supera i confini dell’organizzazione stessa, andando oltre l’idea tradizionale di impresa. È qualcosa che non si era mai visto prima.

Oltre l’idea tradizionale di impresa

Evoluzione di una filosofia manageriale: zero confini, zero distanza 

Vorrei quindi partire proprio da quest’ultimo punto: il metodo che Zhang Ruimin ha definito RenDanHeYi. Lui lo presenta come una vera e propria filosofia.

Infatti, loro non parlano veramente di “modello”, perché non esiste un archetipo precostituito. Preferiscono definirlo un insieme di principi o ingredienti. E hanno compreso – forse sin dall’inizio, forse più tardi – che non è possibile copiarlo. È un po’ come per il Lean Management: se ti limiti a replicarne le pratiche esteriori, ottieni qualcosa di sterile. Serve una trasformazione di fondo, culturale, che nasce dall’interno.


Esatto. Zhang Ruimin nel suo discorso lo ha definito una “filosofia”, e sentendolo parlare ho avuto una sorta di rivelazione: esiste una connessione profonda, millenaria, con le radici culturali cinesi. Questa idea della complementarità, dell’equilibrio dinamico, appartiene alla loro cultura da secoli. Noi, invece, tendiamo a contrapporre individualismo e collettivismo, mentre lì il tema centrale è la relazionalità. Tu hai detto che il modello supera i confini stessi dell’azienda. Possiamo provare a sintetizzare cosa significa questo passaggio da RenDanHeYi 1.0 a 2.0?

Secondo me non si tratta di una rivoluzione, ma di un chiarimento. Già in passato nulla impediva di andare in quella direzione. Il punto di partenza è che l’organizzazione non è vista come un insieme di dipartimenti o funzioni, ma come una rete di contratti.
Questi contratti pongono al centro non tanto il cliente, quanto l’utente, e si chiedono cosa sia davvero utile all’utilizzatore finale di quei servizi o prodotti.
Perché il contratto è importante? Perché allinea gli interessi. Consente ai vari attori – che rimangono indipendenti, come accade per le micro-enterprises – di essere coordinati da una forza superiore che ricompone tali interessi verso il mercato o verso l’utente interno.

Nella prima fase del modello, l’obiettivo era già portare il mercato all’interno dell’organizzazione, far sì che ogni unità agisse come se fosse sul mercato. Il passo ulteriore del RenDanHeYi 2.0 consiste nel superare completamente i confini aziendali: i contratti non vengono più stipulati solo tra unità interne, ma anche tra attori appartenenti a organizzazioni differenti.
È un modo per dire, con forza, che il valore si crea insieme, e che i confini tradizionali dell’impresa sono ormai un ostacolo più che una protezione.

Questo ci collega ai temi dell’open innovation e, più in generale, a questioni che riguardano la società oltre che l’impresa. Quando si abbattono i confini organizzativi, le possibilità di crescita e creazione di valore diventano potenzialmente infinite. Ma, allo stesso tempo, si innalzano anche nuove barriere all’ingresso: più è aperto e interconnesso il sistema, più è difficile replicarlo o copiarlo dall’esterno.

 

Hai accennato al superamento dei confini organizzativi. Questo aspetto, nella prospettiva di Zhang Ruimin, sembra implicare una ridefinizione radicale dell’impresa stessa. Cosa significa, in termini pratici, abbattere i confini dell’organizzazione?

Significa innanzitutto riconoscere che l’impresa non è più un’entità chiusa, delimitata da muri o da schemi gerarchici, ma un nodo all’interno di un ecosistema.
Nel RenDanHeYi 2.0, ogni nodo può essere una micro-impresa, un fornitore, un partner, perfino un cliente: tutti collegati da contratti che regolano scambi di valore, responsabilità e rischi.
Questo approccio consente di creare relazioni dinamiche, in cui il mercato entra a pieno titolo dentro l’organizzazione e, contemporaneamente, l’organizzazione si estende oltre sé stessa.

È un cambio di paradigma. Se nel RenDanHeYi originario il mercato era il punto di riferimento interno, oggi la sfida è costruire mercati condivisi tra attori differenti.
Si tratta di un’evoluzione che porta a pensare l’azienda come parte di un sistema aperto, dove il valore non si genera più solo attraverso la produzione o l’efficienza, ma attraverso la capacità di co-creazione e di adattamento continuo.

La logica dei contratti tra nodi indipendenti, che condividono obiettivi e benefici, permette al sistema di auto-organizzarsi e di mantenere coerenza anche senza un centro di comando rigido.
È un po’ come se l’impresa diventasse una piattaforma viva, in cui gli incentivi sono allineati e in cui ciascun attore, pur agendo per il proprio interesse, contribuisce alla prosperità collettiva.

Se nel RenDanHeYi originario il mercato era il punto di riferimento interno, oggi la sfida è costruire mercati condivisi tra attori differenti

Scala, diversità e velocità dell’innovazione

A Pechino abbiamo notato una presenza significativa di aziende italiane. Ascoltando la filosofia e l’approccio di Haier, verrebbe da pensare che si tratti di un modello adatto solo a realtà di grandi dimensioni, e invece erano presenti – e persino premiate – due imprese italiane.
Vorrei sentire la tua opinione su questo: è davvero possibile un trasferimento del modello in Italia? Forse, anzi, il nostro “nanismo” imprenditoriale potrebbe trovare in esso alcune risposte.

Sì, ma secondo me non è una questione di dimensione in senso stretto – numero di dipendenti o fatturato. La vera chiave è la diversità che un’organizzazione porta sul mercato.
Puoi avere anche mille persone, ma se tutte lavorano per offrire un unico servizio, il RenDanHeYi non aggiunge molto valore. Il modello diventa particolarmente potente quando permette di abilitare un ecosistema di innovazione diffusa e decentralizzata, capace di percepire i segnali del mercato e auto-organizzarsi per rispondere, scommettendo su soluzioni diverse e magari rivolgendosi a segmenti differenti.

Questo è qualcosa che si può fare anche con poche persone.
Nel caso di Gummy Industries, ad esempio, si tratta di poche decine di collaboratori che riescono però a generare una quantità sorprendente di nuovi servizi – molti dei quali non erano stati previsti né dal fondatore né dal CEO.
Il valore, quindi, sta nella diversità e nella possibilità di permettere a questi “mattoncini” di ricomporsi in modi originali, non controllati dal centro dell’azienda.
È una questione di strategia e modello di business, più che di scala o dimensione.


Infatti, mentre parlavi, mi è tornata in mente una slide dello speech di Zhang Ruimin. In una di queste si diceva che “il valore di un ecosistema non risiede nel numero dei partner, ma nella velocità della co-creazione”.
Questo tema della velocità mi sembra centrale, e credo riguardi l’intera cultura cinese. La chiave è rispondere subito ad una sollecitazione esterna, anche in modo approssimativo, per poi correggersi velocemente finché non si arriva alla soluzione.
Questa capacità di agire rapidamente per apprendere – più che di pianificare a lungo – è ciò che mi colpisce di più. Non è la massa a fare la differenza, ma la capacità di generare valore in tempi rapidissimi.

Sì, e lo fanno in modo estremamente diffuso.
Probabilmente esiste anche una differenza culturale nell’adozione di questi modelli fuori dalla Cina. Noi partiamo da presupposti molto diversi e spesso fatichiamo ad accettare l’idea di rinunciare al controllo, di permettere a chiunque, all’interno dell’azienda, di agire liberamente senza una supervisione centrale.

È qui che entra in gioco il tema del portfolio.
Durante la conferenza, Zhang Ruimin ha risposto a una domanda di Bill Fischer dicendo che non esiste alcun portfolio: esistono utenti e nodi che sviluppano servizi, e poi è Darwin – il mercato – a decidere chi sopravvive e chi no.
C’è, in questa affermazione, una forte indicazione filosofica.

Naturalmente, esistono strumenti per bilanciare questa spinta centrifuga, attraverso meccanismi di coordinamento, orchestrazione o parti comuni dell’offerta.
Tuttavia, Zhang Ruimin suggerisce di lasciare spazio all’errore, di osservare ciò che funziona e di usare questo come metrica del valore, piuttosto che giudicare un’iniziativa in base a quanto si avvicini ai target stabiliti a priori.

La velocità è fondamentale: se non sei veloce, fallisci prima ancora di capire cosa funziona e cosa no.

È una questione di strategia e modello di business, più che di scala o dimensione

L’intelligenza artificiale come nuovo orchestratore

A questo punto mi vengono in mente due domande.
La prima riguarda il tema dell’orchestrazione: hai citato l’intelligenza artificiale come possibile orchestratore di questo sistema.
La seconda, invece, tocca i limiti culturali e gli ostacoli che possono emergere.
Restando sul primo punto, Zhang Ruimin ha parlato dell’AI come di un abilitatore della riconfigurazione istantanea dell’organizzazione intorno agli scenari in evoluzione. Ma concretamente, come immagini che questo possa avvenire?

In uno scenario così distribuito, la difficoltà principale è avere una visione d’insieme.
Spesso, anche chi lavora dentro il sistema ha la sensazione di non possederla davvero.
Se chiedi, ad esempio, quante EMC – le Ecosystem Micro Communities – siano attive in un dato momento e cosa stiano facendo, è difficile ottenere un’immagine sintetica e accurata.
Questo accade perché sono moltissime, cambiano continuamente e, in alcuni casi, non si desidera nemmeno avere una visione centralizzata.

Ma se non hai una visione complessiva, come puoi decidere che cosa ricombinare e come farlo?
Ecco perché l’intelligenza artificiale, avendo potenzialmente accesso a tutti i dati, potrebbe fornire suggerimenti migliori di qualunque individuo all’interno del sistema – persino dell’amministratore delegato – che dispone solo di una prospettiva parziale.

È lo stesso principio che osserviamo in casi più piccoli.
Il CEO di Gummy Industries Fabrizio Martire, ad esempio, ha raccontato che, se fosse dipeso da lui, avrebbe dismesso un determinato servizio che poi si è rivelato di successo.
Non aveva le informazioni necessarie per capire che il mercato lo stava richiedendo.
Ora immaginiamo cosa accade quando quattromila servizi si evolvono in tempo reale: diventa un problema impossibile da gestire per un essere umano, o anche per molti umani insieme.

Servono quindi nuovi meccanismi in grado di scomporre e ricomporre l’organizzazione quasi in tempo reale, attorno ai bisogni – anche molto specifici – dei clienti.
In questo senso, l’AI può almeno suggerire configurazioni o indicare opportunità che sfuggirebbero all’occhio umano.

Naturalmente, resta il tema della responsabilità: chi prende le decisioni finali?
Parliamo pur sempre di aziende, di investimenti, e quindi anche di etica.
Non è irrilevante decidere in quale direzione orientare i servizi o quali priorità perseguire.
Per questo credo che delegare tutto all’intelligenza artificiale sarebbe pericoloso: non tanto dal punto di vista economico, quanto da quello etico e strategico.
Tuttavia, la quantità e la velocità dei dati che l’AI può elaborare sono dimensioni ormai imprescindibili.


Sai se tutto questo sta già accadendo in Haier? Utilizzano davvero orchestratori generativi per mappare o combinare in tempo reale le microimprese?

Non ho visibilità diretta su questo, ma so che il sistema già oggi è capace di generare obiettivi in modo autonomo, osservando ciò che accade sul mercato.
Attira gli attori dove ritiene che possano essere più utili e realizza un matching dinamico tra persone, idee, opportunità e investimenti.
Non decide ancora come combinare automaticamente le microimprese, ma forse non siamo poi così lontani da quel traguardo.

Resta il tema della responsabilità: chi prende le decisioni finali?

Differenze culturali e prospettive europee

Tornando al tema delle differenze e dei possibili ostacoli culturali, ne hai citato uno particolarmente interessante.
Per noi è difficile immaginare un’allocazione delle risorse così distribuita senza una direzione centrale che la definisca, come accadeva ai tempi della pianificazione strategica, persino nei minimi dettagli.

Eppure, quando pensiamo alla Cina, l’immaginario collettivo è esattamente l’opposto: un Paese ipercentralizzato, capace di costruire grattacieli di cento piani in pochi mesi, dove tutto sembra funzionare grazie alla disciplina e all’obbedienza.
Nella percezione comune, i cinesi lavorano molto, eseguono ordini senza discuterli e si muovono in un sistema rigidamente controllato.

Torno da tre giorni che per me sono sembrati tre mesi, e continuo a ripeterlo: stiamo fraintendendo il punto.
Non si tratta di negare le differenze dei rispettivi sistemi politici, ma di riconoscere che stanno lavorando in modo diverso.
Dove si colloca, allora, questa distanza culturale?

Oggi ho ascoltato un’intervista molto interessante con un imprenditore cinese che vive negli Stati Uniti.
Diceva: «In America possiamo cambiare partito, ma non le politiche. In Cina non possiamo cambiare partito, ma le politiche cambiano».
E in effetti, negli ultimi sessant’anni, le politiche cinesi si sono trasformate con una rapidità straordinaria, superando per ritmo qualunque altro Paese.

La mia impressione è che, all’interno di un quadro di valori predefinito, l’iniziativa individuale e la velocità siano fortemente incoraggiate.
In Cina si agisce più rapidamente e con maggiore intraprendenza di quanto accada in molte economie occidentali.

L’imprenditore spiegava anche che il problema dell’America è aver posto il capitale al di sopra della politica, mentre in Cina accade l’opposto: il capitale è al servizio della politica, o meglio, di una visione complessiva della società.
Se confondiamo questa visione del mondo con l’idea che in Cina non esista libertà di iniziativa economica, commettiamo un grande errore.
Perché, di fatto, ci stanno superando in molti ambiti, e quindi abbiamo sicuramente qualcosa da imparare – come aziende e come società.

Funziona solo in Cina?

L’adozione in Europa

Per concludere, quali prospettive vedi in Europa?
A Pechino erano presenti due realtà italiane, entrambe di piccole dimensioni, tra cui ASA nel settore manifatturiero.
Come vedi l’evoluzione dell’adozione di questa filosofia nel nostro continente? E quanto può permeare altri ecosistemi?

Al di là dei dettagli dell’implementazione, la domanda vera è: chi non vorrebbe ciò che il RenDanHeYi promette?
Chi non desidera innovare di più, differenziarsi di più, avere dipendenti più soddisfatti e autonomi, alleggerire la burocrazia, o affrontare con maggiore resilienza l’incertezza che ci circonda?

Se torniamo alle ragioni profonde per cui il RenDanHeYi è interessante, è difficile trovare aziende che rispondano: «No, preferisco continuare come sempre».
Forse solo poche realtà possono permettersi di dire: «Produco tondini di ferro, lo farò per sempre, e il mio unico obiettivo è ridurre i costi». Ma quanti sono davvero?

Anche nel manifatturiero, come ASA, che produce un oggetto semplicissimo – un barattolo di metallo – si è capito che, se non si distribuisce a tutti, anche fuori dall’azienda, il potere di innovare e intercettare nuovi bisogni, è solo questione di tempo prima di trovarsi in difficoltà.
Figuriamoci in settori più complessi o basati sui servizi, dove il valore nasce dalle idee e dalla creatività.

Per questo non vedo molte alternative: la vera domanda è quanto siamo pronti ad accogliere un cambiamento di questo tipo.
Vedo segnali di progresso, ma non ancora alla velocità che sarebbe necessaria.
La sfida, oggi, è far comprendere a un pubblico più ampio che le grandi trasformazioni non richiedono compromessi a senso unico.
Possiamo ottimizzare più dimensioni contemporaneamente, a patto di rinunciare a un certo livello di controllo.

Vedo segnali di progresso, ma non ancora alla velocità che sarebbe necessaria

Il primo passo: sperimentare

Hai appena spiegato con parole molto semplici il “perché”.
Se dovessi, con lo stesso linguaggio, indicare un primo passo sul “come”, pensando al sistema economico italiano, da dove partiresti?

Ripartirei proprio da quella distanza culturale di cui abbiamo parlato per tutta la conversazione.
Il primo passo è accettare che non esiste una ricetta.
Il RenDanHeYi non è un modello da applicare, ma una filosofia da sperimentare.

Bisogna accettare che non avremo la soluzione pronta, e che ciascuna organizzazione – come anche i suoi dipendenti – deve assumersi la responsabilità di costruirla da sé, attraverso la sperimentazione.
E questo comincia con un gesto semplice ma potente: ascoltare le storie di chi ci è riuscito e chiedersi se si ha il coraggio di provare qualcosa di simile.

Il RenDanHeYi non è un modello da applicare, ma una filosofia da sperimentare

Ways of Working

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