Get rid of your boss. Share a story instead – ovvero, come sbarazzarti del capo!

giovedì 20 novembre 2025

12 minuti

Get rid of your boss. Share a story instead

Ovvero, come sbarazzarti del capo!

Traduzione a cura di Marta Salini

Nel suo libro Zen and the Art of Organising Work, il Dr. Steve Morlidge lancia un indovinello: “Qual è il modo più rapido per capire se fai parte di un’organizzazione?”.
“Viola una regola” risponde.

Se non succede nulla, non c’eri davvero dentro. Ma se vieni punito, corretto, messo da parte, ignorato o accompagnato dolcemente verso l’uscita, hai appena trovato i confini di un’organizzazione.

Mi ha fatto sorridere. I ribelli lo imparano presto. Nel momento in cui metti in discussione una norma, ti accorgi che le organizzazioni sono ovunque.

Se non succede nulla, non c’eri davvero dentro

Ogni organizzazione racconta una storia 

Sebbene tutte le organizzazioni siano fatte di persone, sono molto diverse tra loro. Esistono in tutte le forme e dimensioni. Non solo aziende, ma anche famiglie, scuole, gruppi di amici, quartieri e così via. Sono tutte organizzazioni. Non puoi sfuggire.

Morlidge scrive che ogni collettivo umano diventa un’organizzazione nel momento in cui inizia a far rispettare aspettative. Ogni organizzazione porta con sé codici di condotta: alcuni scritti, molti no. Perché, al di sotto di qualsiasi struttura formale, vive una rete di regole non dette, obblighi sottili, diritti taciti e aspettative silenti che modellano come si comportano le persone.

Quelle regole non scritte viaggiano attraverso storie. Storie di ciò che è ammirato, tollerato, scoraggiato o punito. Storie su come appartenere, come contribuire, come avere successo e come non combinare guai. È di questo che sono fatte le organizzazioni. Non da organigrammi o processi, ma dalle storie che le persone si raccontano. E quando inizi ad ascoltarle bene, capisci: ogni organizzazione vive dentro la propria storia.

Quelle regole non scritte che viaggiano attraverso storie

Le storie che rendono un’organizzazione sé stessa

Morlidge spiega che le organizzazioni, proprio come le persone, cambiano continuamente eppure restano riconoscibili. Ci incoraggia a pensare agli esseri umani: le nostre cellule muoiono e si ricostruiscono costantemente; cresciamo, invecchiamo e cambiamo forma. Eppure non si perde la sensazione di essere noi.
Anche gli altri ci riconoscono: così rapidamente da capire quando stiamo agendo in modo inappropriato, che non ci si addice.
Chiamiamo questa identità: un filo continuo di scopo, convinzioni e comportamenti che restano riconoscibili anche mentre tutto il resto cambia. Sì, una parte è fisica. Ma la maggior parte è invisibile: ciò in cui crediamo, ciò che valorizziamo, come tendiamo ad agire.
Questo è il nostro modo di essere.

Vale lo stesso per le organizzazioni. Hanno confini fisici, ma anche un’identità fatta di scopo, principi e storie. Si manifesta in come si prendono decisioni, come si fissano obiettivi, cosa è considerato accettabile o proibito, e nelle scelte che un’organizzazione compie quando c’è incertezza.

Uno dei ruoli più importanti delle organizzazioni, quindi, non è dirigere ogni azione, ma condividere storie che mostrino “Ecco chi siamo. Ecco cosa non facciamo. È così che scegliamo tra diverse opzioni quando non c’è una risposta ovvia.”
Secondo Morlidge, le organizzazioni sane, come le persone sane, non hanno bisogno di correzioni continue. Hanno bisogno di un’identità chiara, una bussola condivisa che aiuti le persone ad agire con coerenza senza essere guidate a vista.
Quando l’identità è forte e la governance è chiara, gli interventi centrali sono rari.

Eppure le organizzazioni non partono da una pagina bianca. Ereditano storie. Storie antiche, pesanti. Storie che continuano a plasmare pensieri e comportamenti, molto dopo che le ragioni originali sono svanite.
E, nonostante decenni di teoria del management, una storia domina ancora quasi ovunque.

Come si prendono decisioni, come si fissano obiettivi, cosa è considerato accettabile o proibito...

La vecchia storia in cui viviamo 

La maggior parte dei luoghi di lavoro vive ancora dentro la stessa vecchia storia. Semplice e potente. La storia della piramide. La storia di manager e non-manager, di capi e lavoratori. Il capo decide; il lavoratore esegue. Il capo protegge; il lavoratore ha bisogno di protezione. È la storia del potere gerarchico, in un mondo di titoli, budget e ranghi. Una storia fondata sull’idea che più in alto sei, più potere, libertà e denaro meriti.

Molte aziende che provano a diventare flat (orizzontali) partono cambiando la piramide. Non la storia, ma la struttura. Ridisegnano l’organigramma, rimuovono livelli di management, distribuiscono l’autorità. È un buon inizio, ma solo l’inizio. Cambiare la struttura senza cambiare la storia non basta.
Ciò che distingue davvero le organizzazioni flat di successo dagli esperimenti falliti non è solo come ridisegnano la piramide, ma perché lo fanno. Operano da una filosofia di management diversa: un’altra serie di presupposti su come sono fatte le persone, come coordinare il lavoro e cosa fa prosperare le organizzazioni.

In altre parole, riscrivono il racconto in cui vivono le persone. Non installano semplicemente un nuovo sistema operativo; coltivano nuove storie su cosa significa essere responsabili, giusti e umani al lavoro. Storie invisibili ma potenti, che rivelano la visione del mondo e la filosofia di chi è dentro l’organizzazione: le loro convinzioni fondamentali sulla natura umana.

Queste storie condivise plasmano silenziosamente come si pensa, si agisce e ci si relaziona. Definiscono cosa è giusto o sbagliato, ammirabile o fuori limite. E rimpiazzano la logica comando-controllo della piramide con qualcosa di molto più potente: iniziativa personale e supervisione tra pari all’interno di un concreto accordo morale.

La storia della piramide

Le tre storie che sostituiscono il capo 

Negli ultimi dieci anni ho visitato centinaia di organizzazioni che hanno abbandonato la gerarchia tradizionale, parlando con fondatori e membri. Con alcune (Buurtzorg, Viisi, Haier e molte altre) sono stato in contatto per anni.

La lezione è la stessa: quando le persone condividono una storia, non serve un capo.
Quando condividono una filosofia di management alternativa, coordinamento e controllo avvengono attraverso significati condivisi, non supervisione manageriale. Sono le storie a formare l’infrastruttura invisibile delle organizzazioni piatte. Tengono insieme ciò che è distribuito nell’organizzazione.

Queste storie non sono casuali.
Prendono tre forme riconoscibili e profondamente diverse:

> Comunità unite da appartenenza e solidarietà.

> Gruppi di pari che si coordinano con reciprocità e impegni condivisi.

> Startup interne che competono e collaborano in mercati interni.

Mostrano che il futuro del lavoro non sarà deciso solo dalla struttura, ma dalla filosofia, dalla storia guida che un’organizzazione sceglie di vivere. Con linguaggio e narrazione condivisa, le persone costruiscono la loro bussola interna: chi sono, cosa valorizzano e perché il loro lavoro conta.
Raccontiamone tre. 

Sono le storie a formare l’infrastruttura invisibile delle organizzazioni piatte

“Ci prendiamo cura gli uni degli altri” 

La prima filosofia si fonda sulla solidarietà: siamo reciprocamente responsabili. L’organizzazione è una comunità, non una macchina. Qui, il management non è funzione o gerarchia; è una pratica umana condivisa di cura.
Ci si aspetta che tutti contribuiscano incondizionatamente al bene comune, come in una grande famiglia. È la storia di appartenenza, unità e altruismo. Presuppone che gli esseri umani non siano principalmente individui auto-interessati da monitorare, ma membri premurosi di una comunità, che possono essere degni di fiducia.

Nessuna azienda incarna meglio questo di Buurtzorg, organizzazione olandese di assistenza domiciliare con centinaia di team autonomi di infermieri. Il fondatore Jos de Blok non parte dalla strategia, ma dal sentimento: “Non ho mai voluto avere un’azienda,” dice. “Volevo cambiare il sistema sanitario.”

Dopo 15 anni da infermiere, le sue storie sono piene di momenti di compassione. “Mi sono preso cura di giovani,” ricorda, “di una donna di 34 anni con tumore e due figli. Come società, dovremmo prenderci cura di questa famiglia in modo che, guardandosi indietro, si possa dire: è stata la miglior cura possibile.” Questo principio è fondativo.
Negli anni ’80, racconta: “non c’erano manager. Avevi il tuo quartiere e usavi il tuo giudizio. Era un periodo ideale.”
Poi la professionalizzazione ha portato burocrazia: si è passati da uno, a due, a tre, a quattro livelli di management; tutto è stato frammentato, con un impatto enorme.

Buurtzorg nasce come reazione, ricostruendo l’assistenza attorno a solidarietà e comunità. Hanno creato team piccoli e auto-gestiti con uno scopo semplice: offrire la miglior cura possibile. “Tutti vogliono autogestirsi,” dice De Blok. “Se crei il giusto ambiente, le persone si prendono responsabilità.” A Buurtzorg, quell’ambiente è profondamente umano.

Nei team, tutto si decide con dialogo aperto e consenso. “Prendiamo nuovi colleghi solo se tutti sono d’accordo,” spiega un’infermiera. “Ci vuole più tempo, ma poi la decisione è di tutti.”
Il consenso non è solo un processo decisionale; è appartenenza.
Ricorda alle persone che ogni voce conta e che l’integrità del gruppo dipende dall’inclusione.

Le storie di cura sono l’infrastruttura morale all’interno di Buurtzorg. Quando gli assicuratori volevano frenare la crescita, De Blok pubblicò sul blog interno dell’organizzazione quello che stava accadendo.
Centinaia di infermieri risposero: “Facciamo qualche passo in più. Non diremo di no ai pazienti.”
Lavorarono di più, senza tradire i valori, e chiusero l’anno in positivo. La lezione: la motivazione morale batte gli incentivi finanziari.

Il controllo avviene tramite relazioni, non misurazioni. “Non pensiamo in termini di obiettivi. Bisogna pensare allo scopo: a ciò che vuoi raggiungere in modo positivo. Dovremmo essere più compassionevoli verso le persone di quanto lo sia tutta questa stupida idea dei target,” dice De Blok.
La logica morale si estende al modo in cui le persone si trattano, anche quando lasciano la comunità. Quando due giovani infermiere di Amsterdam presentarono un’idea che le avrebbe portate oltre Buurtzorg – collegare anziani con stanze libere a studenti e giovani infermieri in cerca di alloggio – De Blok non le trattenne. Le incoraggiò, aiutò a redigere i contratti e sostenne il piano, anche se significava perderle. Per lui non era una perdita: “Se trovano un altro ruolo importante nella società, è comunque un successo.” Questa storia divenne un’ulteriore lezione: un’illustrazione della filosofia di cura di Buurtzorg, secondo cui fare del bene alla società è più importante che trattenere i talenti.

De Blok non è ingenuo sulla vita di comunità. “Il rischio più grande,” avverte, “sono le persone dominanti che vogliono fare tutto.”
L’antidoto, dice, non è la gerarchia, ma l’onestà: “È molto meglio costruire una cultura aperta, in cui le persone si sentano al sicuro nel condividere ciò che non funziona. Così possono imparare.”

In questa filosofia, il management non è un livello: è un comportamento condiviso da tutti. I leader agiscono da steward, non da controllori: coltivano connessione, fiducia e significato collettivo.
Come dice De Blok: “A casa, nessuno ti dice cosa fare. Decidete insieme. È naturale.” Sul management tradizionale non esita: “Lo vedo come una malattia. È iniziata 100 anni fa, quando abbiamo pensato di dover organizzare le persone come macchine. È stato uno dei più grandi errori della storia.”

Il risultato di questa filosofia alternativa, fondata sulla solidarietà, è un’organizzazione che assomiglia meno a un’azienda e più a un quartiere: un luogo dove ci si prende cura gli uni degli altri, dove scopo e umanità si sovrappongono, e dove il management è comunità.

L’antidoto non è la gerarchia, ma l’onestà

“Quid pro quo”

La seconda filosofia manageriale alternativa poggia sulla base morale dell’uguaglianza, sul principio del do ut des. Non sono più storie di doni o di dare incondizionato: qui i contributi sono reciproci e condizionati. Il management, in questo racconto, somiglia a una partnership: un’associazione volontaria tra pari, legata da impegni reciproci.

È una filosofia centrata sulla reciprocità, raccontata con storie di botta e risposta, di promesse fatte e mantenute, di equilibrio tra dare e avere. Anche quando gli impegni si onorano in tempi diversi, ciò che conta è che l’equilibrio si mantenga. Si tratta di fare e rispettare promesse verso pari, associati e partner. Come fanno gli amici tra loro. Sono storie di uguaglianza, equità e consenso. Le metafore passano dalla comunità alla partnership, dalla famiglia agli amici, dall’appartenenza all’uguaglianza.

Questa è la filosofia di management adottata dalla maggior parte delle organizzazioni flat. È la storia che si vive in luoghi come Viisi, società olandese di servizi finanziari organizzata con Holacracy. Queste aziende sono costruite come partnership in cui le persone si vedono come pari, con uguale voce e voto.

Il fondatore di Viisi, Tom van der Lubbe, paragona spesso la loro azienda di circa 50 persone al sistema federale svizzero dei cantoni. In Svizzera ogni cantone gode di ampia autonomia finché rispetta la costituzione condivisa. Le decisioni si prendono al livello più basso possibile, dove risiede la conoscenza rilevante. In Viisi, ogni team opera come un “cerchio” ed è chiamato ad agire allo stesso modo.

Sebbene Viisi utilizzi Holacracy come cornice strutturale, questa non prescrive comportamenti o valori. “Holacracy di per sé è morta,” dice un membro di Viisi, detti anche Viisionair. “Non fa nulla. È solo una cassetta degli attrezzi per persone con una visione del mondo simile. Dipende sempre dalle persone, da ciò che vogliono ottenere come organizzazione, dal loro scopo.”

Per Viisi, lo scopo è chiaro: rendere il settore finanziario più sano e sostenibile. Puntano a farlo senza manager, dividendo il lavoro in ruoli, ciascuno con il proprio scopo. Le persone si auto-selezionano in più ruoli e prendono decisioni per consenso informato (non per unanimità).
I cerchi eleggono i lead link per coordinare, e quei ruoli ruotano regolarmente. “È bene che i ruoli ruotino,” afferma un Viisionair. “Ti costringe a guardare il business da prospettive diverse. Costruisce rispetto reciproco.”
Questo non significa che non esistano leader. Un Viisionair ricorda una crisi alla fine del 2022: “Ci siamo detti: Ora serve un nuovo lead link, qualcuno con qualità di crisis management. Abbiamo eletto uno dei cofondatori che ci ha guidati in un momento molto difficile. Poi, passata la crisi, abbiamo eletto qualcun altro, più adatto a ricostruire l’azienda. Si tratta di fidarsi del buon senso delle persone nel votare la persona giusta. E quei voti si ripetono.”

Il principio morale dell’uguaglianza è forse espresso al meglio da una sola regola che attraversa tutta l’azienda, la sua bussola morale per il comportamento collettivo. “In sostanza abbiamo una regola: la Regola d’Oro. Tratta gli altri come vorresti essere trattato tu,” dice un Viisionair.
“È semplicissima, ma così ampia che puoi usarla quasi in ogni situazione. La maggior parte delle cose le facciamo con quella regola in mente. Ti chiedi: Come vorrei essere trattato se fossi nei panni dell’altra persona?”
In questo modo, la Regola d’Oro rimpiazza policy, valutazioni di performance e negoziazioni salariali con una bussola morale comprensibile a tutti.

Una delle storie più emblematiche di Viisi nasce durante il COVID-19. Quando i lockdown hanno sconvolto lavoro e cura dei figli, il team ha creato il semaforo. Ogni persona poteva segnalarsi verde, arancione o rossa. Verde: puoi lavorare normalmente; arancione: puoi lavorare a metà (ad esempio con bimbi a casa); rosso: non puoi lavorare.
Invece di punire l’assenza o premiare la produttività, Viisi ha usato il sistema per costruire comprensione reciproca. Chi era verde lavorava volontariamente di più per sostenere colleghi arancioni o rossi, confidando che, quando sarebbe toccato a lui, gli altri avrebbero fatto lo stesso.
Quella storia è diventata una lezione interna: un esempio vivo del modello di partnership in azione. “Funziona solo quando c’è reciprocità,” spiega un Viisionair. “Le persone aiutano gli altri perché sanno che verranno aiutate quando sarà il loro momento.”
Ma proprio l’elemento che fa funzionare questa filosofia – l’uguaglianza – può creare punti ciechi. “In gruppi molto egualitari,” ammette un Viisionair, “le persone a volte diventano troppo educate. La performance mediocre o insufficiente non viene mai affrontata.”
L’uguaglianza può scivolare in comfort ed evitamento, a meno che la storia non ricordi che la correttezza richiede onestà, non uniformità.

In queste narrazioni di partnership, il controllo non scompare: cambia forma. Invece di essere detenuto da pochi, è distribuito tra molti. La storia stessa – di uguaglianza, reciprocità e impegni reciproci – diventa la costituzione che tutti seguono.

Il principio del do ut des

“Diventa padrone della tua vita”

La terza filosofia manageriale alternativa non si basa su storie di cura incondizionata (come in Buurtzorg), né su promesse e impegni reciproci (come in Viisi). La sua base morale è diversa. Qui, l’idea guida è che ogni persona dovrebbe diventare padrona della propria vita: possedere il proprio destino, generare valore e raccogliere i frutti della propria iniziativa. In questa visione, il lavoro non è un dono comunitario o una promessa di partnership: è un atto imprenditoriale.
Questa filosofia mette al centro la creazione di valore: la convinzione che tutti possano, debbano e sapranno creare valore se hanno libertà e meccanismi di mercato per farlo. Le opportunità non si distribuiscono: si scoprono. Il contributo non è valutato dai pari o dai manager, ma dal mercato. E le ricompense fluiscono in proporzione: chi crea più valore riceve più valore; chi non lo crea, non lo riceve. 

Le storie che nascono da questa filosofia assomigliano meno a racconti di famiglie o amicizie, e più a storie di mercati animati: offerte e contratti, domanda e offerta, utenti che premiano ciò che li serve e ignorano ciò che non li serve. È la narrativa di performance, competizione, ricompense proporzionali e responsabilità imprenditoriale.

Nessun luogo esprime questo meglio di Haier, colosso cinese degli elettrodomestici trasformato in una rete di microimprese. Dentro Haier, raramente ci si definisce dipendenti: ci si descrive come imprenditori che gestiscono microimprese in un ecosistema più ampio.
Su decine di migliaia di persone, ogni microimpresa funziona come una startup: progetta prodotti, partecipa a gare per contratti interni, compete per risorse e condivide profitti in base al valore creato per gli utenti. “La nostra filosofia non riguarda regole o regolamenti,” dice un imprenditore di Haier. “È una filosofia. Diciamo: il tuo stipendio lo paga l’utente. Se crei valore per lui, meriti una quota proporzionale di quel valore.”

La logica è semplice: le persone non hanno bisogno di essere gestite, hanno bisogno di un mercato. Su questo mercato, gli imprenditori e le loro microimprese dichiarano pubblicamente i loro obiettivi – quante vendite, quali ricavi, come si condivideranno le ricompense. Altri imprenditori e microimprese possono unirsi, competere o investire. Il successo è visibile. Anche il fallimento.

Un imprenditore di Haier descrive così la vita organizzativa: “Ogni anno presento la mia attività a tutte le microimprese. Se non scelgono di lavorare con me, la mia microimpresa può scomparire. Ma ho anche la libertà di servire altri, persino fuori da Haier. Il mercato giudica il tuo lavoro. Se il servizio HR non piace, si può ingaggiare un’altra microimpresa HR o un consulente esterno. Devi competere. Alcuni dicono che è stressante. Io penso che sia sano. Il consumatore non smette mai di chiedere. Perché dovremmo farlo noi?”

Il fondatore, Zhang Ruimin, usa una metafora biologica: “L’azienda è una foresta pluviale. Alcune specie sopravvivono, altre scompaiono, e ne emergono di nuove. Il mercato non è spietato. È saggio. Ricompensa iniziativa, creatività e focus sull’utente.”
Un imprenditore vede la corporation come un incubatore: “L’azienda ti dà l’infrastruttura legale, marketing e HR. Ma devi concentrarti sul mercato. Creare idee. Servire utenti reali. Questo è il tuo lavoro.”

Un altro imprenditore la mette sul personale: “Più sei vicino al consumatore, migliore essere umano diventi.” In questo mondo morale, il principio guida è la proporzione. Dai valore, ricevi valore.
La libertà si guadagna, non si concede. “Le persone dovrebbero seguire i propri sogni,” dice un imprenditore di Haier, “e mantenerli. Se non lo fanno, devono accettarne le conseguenze.”
Questa filosofia si affida alle dinamiche di mercato non come fine, ma come strumento di co-creazione. L’obiettivo non è solo soddisfare i consumatori, ma unirsi a loro: trasformare gli utenti in collaboratori che aiutano a progettare prodotti e servizi. “Quando i tuoi consumatori diventano il tuo centro R&D,” spiega un imprenditore, “crei un vero vantaggio competitivo. Non ci innamoriamo delle idee. Ci innamoriamo delle persone che serviamo.”

Storie di successo e fallimento circolano continuamente. Ma, diversamente dalle storie morali di Buurtzorg (solidarietà) o di Viisi (reciprocità), le narrazioni di Haier celebrano la generatività: quanto valore qualcuno crea sul mercato.
Una storia che proviene dall’interno è quella dell’aria condizionata per camper. Dopo il Covid, gli RV sono esplosi in popolarità. Haier non serviva quel mercato. Un piccolo gruppo di ingegneri ha visto l’opportunità: ha “hackerato” un condizionatore domestico, l’ha adattato a un RV, ha investito di tasca propria e si è presentato con un prototipo brandizzato. Hanno presentato l’idea ad altre microimprese, raccolto fondi e costruito un nuovo business. Non perché lo avesse detto il management, ma perché l’opportunità esisteva e l’hanno colta.

Un’altra storia è l’origine di Haier Biomedical. Un singolo dipendente ha notato che la tecnologia a bassa temperatura di Haier poteva essere riutilizzata per applicazioni mediche. Ha formato una microimpresa, costruito un sistema di refrigerazione connesso per laboratori, e presto ha attirato 67 colleghi che hanno investito complessivamente circa 100 milioni di yuan. In due anni, l’iniziativa è cresciuta fino a diventare una società quotata. Le ricompense sono state condivise in modo trasparente e proporzionale. Nell’universo morale di Haier, questo è il successo: iniziativa premiata, valore distribuito, utenti serviti.

Queste storie diventano la mitologia interna di Haier. Mostrano che, in Haier, il mercato diventa il capo. Ma gli insider non ignorano i rischi. “Qui si parla di clienti e di giungla,” avverte un imprenditore. “Non tutte le specie sopravvivono. Ma è una buona Darwin.”

In questa filosofia, il racconto che si vive è chiaro: la tua libertà dipende dalla tua creazione di valore. Le tue ricompense riflettono il tuo contributo. E il tuo futuro è determinato non da un capo, dai pari o dalla comunità, ma dagli utenti che servi.

Ogni persona dovrebbe diventare padrona della propria vita

Tre filosofie di management veramente diverse 

Queste storie mostrano che è possibile rompere la monocultura gerarchica coltivata da decenni di pensiero MBA. Rivelano modi diversi di vedere il mondo e di pensare a management, autodirezione e coordinamento collettivo. Queste visioni possono integrarsi in modelli alternativi, più sostenibili e più umani.

Sono filosofie costruite da persone che hanno scelto una prospettiva diversa. Agiscono su ciò che ritengono davvero importante nella vita, guidate da principi coerenti. Si raccontano un’altra storia, onesta e concreta, su ciò che valorizzano e perché. Condivise dentro le organizzazioni, queste storie creano economie morali distinte: sistemi invisibili di auto-responsabilità e controllo tra pari.

Raccontate e ritessute in riunioni, messaggi, rituali e interazioni quotidiane, le storie diventano una forma di controllo.
Nelle comunità, le persone si autoregolano con storie di solidarietà e cura. Nelle partnership, con storie di reciprocità e uguaglianza.
Nei mercati, con storie di generatività e proporzionalità.
Ma queste storie morali fanno più che regolare i comportamenti: danno significato. Spiegano perché le persone agiscono come agiscono.

Così, la narrazione sostituisce la supervisione. Rende tangibili principi astratti e ricorda cosa significa essere un buon membro dell’organizzazione. E buon membro assume tre forme molto diverse.

> Comunità flat: attraggono persone con disposizione altruista, che massimizzano gli esiti degli altri anche a costo proprio. La loro frase naturale è: “Voglio che tu stia bene, anche se io no.”
Donano risorse, tempo o credito per far riuscire gli altri. Questa filosofia è particolarmente attraente in nonprofit, ONG, charity e settori come cura ed educazione. Oltre a Buurtzorg: ZorgAccent, BuurtzorgT, Grupo Lacos.
Si rischia, se spinta all’estremo: coesione da setta, evitamento dei conflitti perché troppo personali, nepotismo.

> Partnership: attraggono persone cooperative/prosociali, che massimizzano esiti congiunti e uguaglianza.
Guidate da “Facciamo tutti bene insieme.” Scelgono opzioni che creano equità e beneficio collettivo.
Base di modelli come Semco Style, Sociocracy, Holacracy, O2, NER. Oltre a Viisi: NER Group, Equal Experts, Eppo.
Si rischia: bro culture, prigioni della gentilezza dove la performance mediocre non viene affrontata, trappola del tit-for-tat che innesca cicli di conflitto anche senza intenzione.

> Mercati: attraggono persone competitive, che massimizzano vantaggi relativi e puntano a superare i pari, anche a qualche costo personale. La loro frase: “Voglio vincere.”
Oltre a Haier: Disco Corp, Fajar Benua, Gaiax.
Si rischia: la concorrenza spietata diventa temeraria o negligente, e individui o team guardano solo al proprio successo perdendo di vista la prosperità del collettivo.

Queste tre filosofie creano tre modi diversi di essere buoni membri. Trasformare un luogo di lavoro tradizionale in un’organizzazione flat significa cambiare come le persone vedono sé stesse, gli altri e le relazioni interne/esterne. Al centro c’è un cambio di narrazione: il momento in cui l’azienda smette di chiedere “Chi comanda?” e inizia a chiedere “Quale storia stiamo vivendo?”

Quale storia stiamo vivendo?

La narrazione come forza di trasformazione 

Quando si passa dalla gerarchia all’autogestione, il cambiamento più profondo non è nella struttura ma nella storia. La vecchia narrativa del controllo – qualcuno decide, altri obbediscono – è sostituita da nuove narrazioni di solidarietà, reciprocità e generatività.
L’autonomia distribuita va ancorata a storie condivise su ciò che è giusto. Più autonomia, più forte e chiaro dev’essere il racconto.

Questo implica che, oltre a cambiare strutture e sistemi, prima devono cambiare le persone. La trasformazione organizzativa dipende dalla crescita personale. Non puoi rendere flat un’azienda se le persone non comprendono – e non sanno applicare – la filosofia e i principi su cui si regge.
Come dice Jos de Blok: “La trasformazione non è un trucco. Non è una questione di struttura. È un insieme coerente di cose da comprendere e da vivere. È cultura. È comportamento. È come vedi il tuo ruolo nel mondo e come lo traduci in nuovi modi di lavorare. E riguarda anche come puoi cambiare te stesso.”
La trasformazione, quindi, inizia dal dialogo, non dal design. Prima di cambiare la struttura, queste organizzazioni parlano di significato: cosa le unisce e cosa vogliono rappresentare. La storia si costruisce insieme, non si impone. Quando la storia è condivisa, la struttura segue più naturalmente.

La narrazione costruisce anche resilienza. Nelle crisi, offre continuità. A Buurtzorg, la solidarietà mantiene umanità. A Viisi, la Regola d’Oro preserva reciprocità. A Haier, la storia imprenditoriale alimenta la reinvenzione.
Certo, le storie possono irrigidirsi: quella di mercato può scivolare in competizione spietata; quella democratica può affogare nella cortesia; quella di cura può diventare paternalismo. Un’autogestione sana tiene viva la narrazione: la mette in discussione, la evolve, la rinfresca con nuove esperienze.

La storia richiede attenzione quotidiana. Ogni conversazione, decisione, riflessione rafforza o riscrive il racconto che l’organizzazione fa di sé. Per questo queste aziende investono molto nel dialogo: non solo per comunicare decisioni, ma per co-creare significato.

In fondo, le organizzazioni flat prosperano non perché hanno meno manager, ma perché hanno storie più forti. Le loro narrazioni fungono da costituzioni invisibili: infrastrutture morali che guidano i comportamenti quando nessuno guarda.
Come ha detto Jabi Salcedo del NER Group: “Non ci servono capi. Non hai capi in famiglia, né tra amici, eppure si fanno un sacco di cose insieme.”
Quella frase cattura lo spirito di questo nuovo mondo del lavoro: un mondo tenuto insieme non dalla gerarchia, ma dalle storie che le persone scelgono di vivere.

Nuove narrazioni di solidarietà, reciprocità e generatività.

Ways of Working

Il modo concreto in cui le persone collaborano dentro un’organizzazione. Non è solo “come lavoriamo”, ma come progettiamo insieme lavoro, riunioni, decisioni e informazioni.

Self Management

Per cambiare le aziende non basta cambiare i manager e i leader, bisogna evolvere le pratiche e modelli di organizzazione dei team, delle informazioni e delle decisioni, in direzione di una maggiore autonomia e indipendenza. Il self management permette alle persone

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